I Registi 
                     
                      Ali Asgari (Teheran, 25 luglio 1982), è molto noto  nell’ambito cinematografico  iraniano, si è aggiudicato oltre 200  riconoscimenti. Due dei suoi cortometraggi, More Than Two Hours (2013) e Il  silenzio (2016), sono stati nominati per la Palma d’Oro al Festival di Cannes.  The Baby è stato presentato al concorso per corti del Festival del Cinema di  Venezia nel 2014. I film di Ali si focalizzano sulle vite precarie di individui  che vivono ai margini della società nel suo Paese d’origine, l’Iran. Il suo  film d’esordio, Disappearance, è stato realizzato presso la Cinéfondation  Residency del Festival di Cannes ed è stato presentato al Festival  Internazionale del Cinema di Venezia nel 2017. Until Tomorrow, il secondo  lungometraggio di Asgari, è stato presentato alla Berlinale nel 2022. Ali è un  membro della Academy of Motion Picture Arts and Sciences.  
                     
                  Alireza Kathami (Iran, 1980) è un premiato cineasta  iraniano-americano di base in Canada. Le sue opere sono fortemente influenzate  dalla ricca tradizione di cantastorie della tribù indigena Khamse, in Iran,  all’interno della quale Alireza trova le sue origini. I suoi film investigano  in modo toccante l’interconnessione fra  memoria, trauma e dinamiche di potere,  spesso attraverso una lente filosofica e con un umorismo nero. Ha collaborato  con famosi cineasti come Asghar Farhadi. Il suo lungometraggio di esordio,  Oblivion Verses, sviluppato presso la Cinéfondation Residency del Festival di  Cannes, è stato presentato al Festival Cinematografico di Cannes,  aggiudicandosi tre premi, fra cui il Premio Orizzonti per la Migliore  sceneggiatura e il Premio FIPRESCI. Alireza è anche co-sceneggiatore di Until  Tomorrow, che è stato proiettato per la prima volta alla Berlinale. Attualmente  sta lavorando in Turchia ad un thriller psicologico che è un’opera di fiction autobiografica. 
                    Sinossi 
Nove episodi di vita quotidiana a Teheran, con  cui i registi Ali Asgari e Alireza Khatami svelano coraggiosamente i nonsense  di un sistema che controlla, sanziona, regola, ogni aspetto dell’esistenza dei  cittadini. Si va da chi per lavorare deve conoscere perfettamente il Corano a  chi ha perso il cane contravvenendo alla legge, da una bambina che per il primo  giorno di scuola vorrebbe portare jeans e maglietta al regista che cerca di  farsi approvare preventivamente un copione. Piccole storie comuni, raccontate  con semplicità e non senza ironia, ma in cui ben si percepisce tutto il peso e  la repressione del regime iraniano. 
                    Produzione 
                      Asgari e Khatami si sono  conosciuti nel 2017 alla 74ª Mostra internazionale d'arte cinematografica  di Venezia, dov'erano gli unici due iraniani. Il film è nato dalla frustrazione  di Khatami dopo che un progetto a cui aveva lavorato per anni era stato  bloccato poco prima dell'inizio delle riprese dal Ministero della cultura  e  dell'orientamento islamico. Ispirandosi al genere classico "di  dibattito" della poesia persiana, in una settimana ha scritto assieme  ad Asgari una sceneggiatura che prendeva spunto da episodi accaduti a loro e a  loro conoscenti. Non volendo aspettare un'altra autorizzazione da parte del  governo, hanno cominciato a girare con mezzi propri già due settimane dopo  la fine della stesura.  
                      Le riprese si sono  tenute per un primo blocco nel settembre 2022, poco prima dell'inizio  delle proteste per la morte di Mahsa Amini, che hanno influenzato molto il  secondo, girato tra il febbraio e il marzo del 2023. In tutto, il film è stato  girato in sette giorni. Nonostante sia composto di soli 12 ininterrotti long  take statici e parlati, i registi hanno dichiarato che non vi è  stata improvvisazione da parte degli attori e che nulla è stato  cambiato in fase di montaggio o di riprese rispetto alla scrittura.  
                    Note di  regia 
                      In Kafka a Teheran esploriamo le dinamiche del potere nella  società iraniana contemporanea, attingendo alle idee di Foucault sulla  biopolitica e sul biopotere. Analizziamo il modo in cui i regimi totalitari  controllano gli aspetti personali delle vite degli individui, come ad esempio i  corpi, la sessualità e l’identità. Attraverso quadri viventi drammaticamente  realistici, estremamente convenzionali e spesso ironici e paradossali,  catturiamo l’impatto della biopolitica e del biopotere sui cittadini iraniani  nell’ambito di un sistema che esercita un controllo totalitario. Questa   regolamentazione pervasiva si insinua nella vite degli individui, sradicando  gli spazi personali dove potrebbe nascere la resistenza. Sottolineiamo la  manipolazione delle vite dei cittadini da parte dello stato, sollecitando lo  spettatore a rendersi conto del prezzo che questo controllo ha sull’autonomia  delle persone. Mettiamo a nudo i tentativi dei cittadini di ritagliarsi dei  piccoli spazi privati di ribellione, a dispetto di un regime oppressivo. Kafka  a Teheran ci consegna una cronaca di grande potenza emotiva sulla libertà  individuale e sulla necessità di una sfera privata che incoraggi la resistenza.  Esaminando queste tematiche, stimoliamo lo spettatore a riconoscere il potere  nelle loro vite e li ispiriamo a conservare l’individualità e l’autonomia  nonostante il controllo oppressivo dello stato. In ultima analisi, Kafka a  Teheran rappresenta un’inchiesta cinematografica sulla biopolitica e sul  biopotere, facendo luce sulla minaccia dei regimi totalitari e  sull’imperatività di difendere la propria individualità e la libertà come aspetti  di valore inestimabile per l’esistenza umana. 
                    Qual è il messaggio che sperate venga recepito dal pubblico di Kafka  a Teheran? A- Speriamo che gli spettatori guardino il film e si  chiedano qual è la loro relazione con il potere. Ci auguriamo che il film  spinga tutti noi a guardarci allo specchio e a farci delle domande. 
                      (dal pressbook) 
                    Cinema come finestra su una realtà disperata, in bilico tra  il dramma e la farsa, tra il paradosso e il grottesco.  Dodici storie di repressione unite da una scrittura tutta  dialogica, sempre vibrante nei ritmi, e filmate da  una (sola) camera fissa per dodici long takes.   
                      Tanto basta per mosaicare in  
                      absentia un carotaggio esaustivo e caustico di una  Teheran (di un Iran, di un qualsiasi popolo) supino a un Potere  orwelliano. Un Grande Fratello suadente e fanatico che si  manifesta come reclusione spaziale e mentale, integralismo, congelamento  dell’identità, atrofizzazione del pensiero, rimozione della libertà. E poi  esclusione, isolamento, inaridimento, tedio, morte. L’occidentalizzazione dei  costumi è lo spettro da abbattere; omologazione, conformismo, proibizionismo i  mezzi con cui farlo. 
  (Davide Maria  Zazzini,Cinematografo) 
                    I due registi hanno fatto un lavoro di resistenza civile che deve  essere costato non poca fatica, espedienti e rischi e che non avrà spazio di  visione in Iran. Perché questo è un cinema di denuncia sociale che, con grande  semplicità di mezzi e con un approccio estremamente diretto alla realtà, sa  comunicare con efficacia il proprio grido di ribellione molto più di altre  opere formalmente elaborate ma distanti anni luce da una fruizione non  intellettualisticamente di nicchia 
                      (Giancarlo Zappoli, myMovies) 
                    (Scheda a cura di Paolo Filauro)                    |